Le donne non portavano calze. Le ginocchia grosse, sporgenti, carnose, sottolineate dall’elastico dei gambaletti, spuntavano a tratti da sotto l’orlo degli abiti, che non erano abiti ma piuttosto federe di tela leggera, senza forma né risvolti. Non saprei come definirle. Fu per questo che le notai, piantate come alberi tozzi sull’erba incolta del cimitero, senza calze, senza stivali, con le giacche di lana pesante che si stringevano al petto incrociando le braccia come unico cappotto.
Neanche gli uomini indossavano il cappotto, ma si erano chiusi le giacche, anch’esse a maglia e pesanti, più scure, per affondare le mani nelle tasche dei pantaloni. Si assomigliavano tra loro come le donne. Avevano tutti la camicia abbottonata fino al collo, la barba dura fatta da poco e i capelli cortissimi. Alcuni portavano un basco, altri no, ma la posa era la stessa, le gambe larghe, la testa ben dritta, i piedi incollati al terreno, alberi pure loro, bassi e robusti, capaci di resistere alle avversità, vecchissimi e allo stesso tempo assai forti.
Anche mio padre disdegnava il freddo e i freddolosi. Mi tornò in mente, in quell’istante, mentre il vento gelido di montagna – un filo d’aria, avrebbe detto lui – mi tagliava la faccia con una lama orizzontale, affilatissima. All’inizio di marzo il sole sa imbrogliare, fingersi più maturo, più caldo nelle ultime mattine invernali, quando il cielo pare una fotografia di se stesso, d’un blu così intenso che sembra ritoccato da un bambino con un pastello a cera, il cielo ideale, limpido, profondo, trasparente, le montagne sullo sfondo, le cime ancora ingioiellate di neve e qualche pallida nube che si sfilaccia lenta, per confermare con la propria indolenza la perfezione di un miraggio primaverile. Che bella giornata, avrebbe detto mio padre, ma io avevo freddo, il vento gelido mi tagliava la faccia e l’umidità del terreno trapassava la suola dei miei stivali, la lana dei calzettoni, la fragile barriera della pelle, per congelarmi le ossa delle dita, le piante dei piedi, le caviglie. Dovevate sentire in Russia, in Polonia, ci diceva lui quando eravamo piccoli e ci lamentavamo del freddo che faceva al suo paese in mattinate come quella, certe domeniche d’inverno in cui il cielo più bello del mondo sceglieva Madrid per mostrarsi all’alba.
(Traduzione di Roberta Bovaia)
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