Gary Shteyngart, Mi chiamavano piccolo fallimento

Un anno dopo essermi laureato lavoravo downtown, all’ombra immensa del World Trade Center, e durante la mia scanzonata pausa pranzo quotidiana di quattro ore passavo davanti ai due giganti mangiando e bevendo e proseguivo su per Broadway, giù per Fulton Street, fino allo Strand Book Annex. Nel 1996 la gente leggeva ancora i libri e la città poteva permettersi una succursale extra del leggendario Strand nel Financial District, a dimostrazione che all’epoca ci si aspettava che agenti di cambio, segretarie, funzionari governativi… tutti avessero una qualche vita interiore.

Nel corso dell’anno precedente avevo tentato di fare l’assistente in uno studio legale che si occupava di diritti civili, ma non era andata bene. Lavorare in uno studio legale richiedeva grande attenzione ai dettagli, molta più attenzione di quanta ne potesse garantire un giovanotto nervoso con la coda di cavallo, un problemino di abuso di sostanze psicotrope e una spilla a forma di foglia di marijuana sulla cravatta con finto nodo. Più vicino di così a esaudire il sogno dei miei genitori di vedermi avvocato non sarei arrivato. Come la maggior parte degli ebrei sovietici, come quasi tutte le persone immigrate dai paesi comunisti, i miei genitori erano profondamente conservatori, e non avevano mai tenuto in grande considerazione i quattro anni che avevo passato alla mia università progressista, l’Oberlin College, a studiare marxismo e scrittura. Durante la sua prima visita a Oberlin, mio padre si piazzò sopra una gigantesca vagina dipinta in mezzo al cortile interno dall’organizzazione di lesbiche, gay e bisessuali del campus, e ignaro della crescente marea di fischi e della calca, mi sciorinò le differenze fra le stampanti laser e le stampanti a getto di inchiostro, e in particolare i prezzi al dettaglio delle cartucce. Se non sbaglio, era convinto di trovarsi sopra una pesca.

(Traduzione di Katia Bagnoli)

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