Massimo ha nove anni quando muore la sua adorata madre, a causa di un ‘ infarto improvviso ‘, gli dicono i parenti, che sembrano tuttavia tenergli celato qualcosa.
Prima di diventare un giornalista affermato, Massimo trascorre un’infanzia solitaria e un’adolescenza difficile, segnato da quella perdita e sempre avvolto in una cortina di sofferenza.
Solo alla fine di un doloroso percorso di avvicinamento alla verità scoprirà com’erano andate esattamente le cose, e troverà il modo di ritrovare la serenità.
All’inizio, il contesto è quello di una Torino dei tardi anni ’60, con immagini in bianco e nero della Tv di quel periodo, quasi a fornire un supporto al tessuto della memoria. Appare spesso il personaggio di Belfagor, protagonista dello sceneggiato che Massimo guardava insieme alla madre, e che diventa una specie di amico, una voce interiore da cui si sente protetto. Per non lasciarsi risucchiare in un tunnel di angoscia, si identifica anche con personaggi che vede sul piccolo schermo: un cronista sportivo, un campione di tuffi di cui imita i salti sul divano, in un gesto terribilmente eloquente.
Nei trent’anni che il film ripercorre della vita di Massimo, fino al suo successo come giornalista, ci sono anche riferimenti a Tangentopoli, a Sarajevo, e alla fama che gli giunge all’improvviso quando il direttore di La Stampa decide che sia lui a rispondere ad una lettera al giornale su un difficile rapporto madre – figlio. Infine, la scoperta, mediante un articolo di giornale dell’epoca, che la madre depressa si era suicidata gettandosi dal quinto piano.
Bella versione cinematografica di Marco Bellocchio del romanzo autobiografico di Massimo Gramellini, il cui titolo si rifà al saluto con cui di sera la madre si congedava da lui, anche la notte del suo suicidio.
Una citazione:
I “se” sono il marchio dei falliti! Nella vita si diventa grandi “nonostante”
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