TREVISO – Aria e terra: in questi due opposti trova spazio la visione munariana del mondo e dell’arte, in una continua antinomia che è in verità sinergia tra i due elementi. Una filosofia che è da sempre stata il motore della produzione artistica di Munari e che costituisce il fil rouge della mostra “Aria e Terra” curata da Guido Bartorelli. Realizzata dalla Fondazione Palazzo Pretorio di Cittadella, la mostra è stata inaugurata il 9 aprile e rimarrà aperta fino al 5 novembre 2017.
Se è noto quanto l’universo artistico di Bruno Munari sia variegato e l’insieme della sua produzione contempli pittura, scultura, sperimentazioni nelle tecniche più varie e innovative, e ancora grafica, design, editoria, fino a contemplare una sensibile e lungimirante attenzione verso i laboratori per bambini (in cui dà corpo al superamento dell’opera d’arte ‘chiusa’ a favore della ‘fluente processualità’ del fare) allora cosa ha determinato la scelta delle opere esposte?
Come spiega Guido Bartorelli «la scelta del materiale da esporre si è basata su due nozioni, aria e terra, sufficientemente orientate verso certi valori piuttosto che altri, e allo stesso tempo in grado di suggerire una semantica ampia, tanto più che si prestano a essere incrementate per via di metafora. Inoltre, aria e terra sono qui intese in relazione dialettica: giustapposte ma imprescindibili l’una all’altra come i poli di un magnete».
L’ARIA. Leggerezza fisica e mentale sono l’essenza delle opere sospese che, quasi come antenne, prontamente reagiscono vibrando a impercettibili movimenti dell’aria, appartengono alla serie delle “Macchine Inutili”, realizzate dall’artista dal 1933 in poi.
La leggerezza delle opere si traduce in fare, e far vedere, quindi il carattere smaterializzato si congiunge con l’obiettivo di divulgare i risultati della sua ricerca ben oltre l’ambito ristretto dell’arte, vista come luogo elitario ed esclusivo, per immergerli nelle pratiche concrete della quotidianità. Così nascono due grandi realizzazioni che estendono su scala urbana la sensibilità all’aria delle Macchine Inutili.
E poi la TERRA. Il fine divulgativo fa scattare in Munari sia l’attività di designer al servizio dell’industria più illuminata, sia la progettazione esperienziale destinata a stimolare il pieno sviluppo della creatività di ciascuno. L’idea di Munari di arte si fa concreta nella lampada “Falkland”.
Completano la mostra le ‘Stanze del fare’: protagonista qui è il gioco che diventa il veicolo per dire che aver già imparato qualcosa non significa non poter creare più niente di nuovo. Per chiedersi sempre ‘cosa si può fare?’.
Ecco, allora, che la visita a Palazzo Pretorio offre al pubblico un percorso originale sull’opera di Bruno Munari, che consente sia di apprezzarne i caratteri peculiari al cospetto dei capolavori, sia di fruire la mostra come occasione per apprendere attraverso il fare, secondo le intenzioni dichiarate dallo stesso artista.
Munari si è sempre preoccupato che il suo lavoro fosse di stimolo al fare, in modo che il fruitore, opportunamente guidato, potesse penetrare le regole tecniche e creative, acquisendo nuove competenze indispensabili per la conquista della capacità di reinventare. Munari sosteneva con forza che musei e mostre dovessero prevedere «dimostrazioni visive di tecniche d’arte» (“Da cosa nasce cosa”, 1981), ossia esperienze-laboratori che consentano ai visitatori di provare nel concreto i procedimenti da cui sono scaturite le opere esposte. Nel rispetto di questo concetto, le stanze del fare vanno intese come parte integrante dell’opera, in quanto le attività sono opere vere e proprie progettate dall’artista. Munari non concepisce l’opera d’arte chiusa (unica, irripetibile, intangibile) sperimenta invece, con straordinario anticipo, quell’opera come processo, si pone quale straordinario e prolifico precursore di un concetto che tanta parte avrà nelle tendenze successive.
Processo, fluidità, relazione, interattività, sinergia con il fruitore: sono questi i concetti fondanti l’arte di Munari e su cui la mostra pone particolare attenzione. Conclude, infine, il curatore: «dal pensare al fare e poi di nuovo al pensare […] Si conferma che i due poli non si escludono, semmai si presuppongono, l’uno ingranandosi nell’altro. Anzi, è più corretto dire che non si dà mai il polo aria senza una qualche compenetrazione di terra, e viceversa. In fondo l’aria coinvolge già il designer, pur se al livello della ricerca pura, esplorativa, quando egli non è ancora finalizzato a una determinata commissione ma sa pur bene che, prima o poi, dovrà discendere nella pratica. Dall’altra parte la terra non va certo intesa come materialità crassa e cieca perché custodisce in sé la luce della ricerca, del metodo: l’oggetto di design è un’idea progettuale concretizzata, così come il laboratorio è innesco della creatività tramite l’azione».
Bruno Munari nasce a Milano nel 1907 e trascorre la fanciullezza a Badia Polesine (RO) nei pressi dell’Adige. Con la maggiore età si stabilisce a Milano, dove aderisce presto al Futurismo ed espone in importanti mostre collettive (Galleria Pesaro, Biennale di Venezia, Quadriennale di Roma, Triennale di Milano). Nel 1930 realizza la Scultura aerea, cui seguirà l’importante serie di sculture sospese Macchine inutili (dal 1933 in poi). Nel 1948 è tra i fondatori del MAC (Movimento Arte Concreta), assieme a Gillo Dorfles, Gianni Monnet e Atanasio Soldati. A partire dal 1949 pubblica i Libri illeggibili. Dal 1952 lavora nel campo del design industriale progettando giocattoli in gommapiuma (Gatto Meo e Scimmietta Zizì, Pirelli), il Portacenere cubico (Danese, 1957), le lampade di maglia Falkland (Danese, 1964). Nei primi anni Sessanta disegna la veste grafica delle collane editoriali Einaudi. Nel 1974-1975 torna all’olio su tela con la serie Curve di Peano, basate su una teoria formulata nel 1890 dal matematico Giovanni Peano. Negli anni Settanta l’infanzia è sempre più al centro dei suoi interessi, il che lo porta a progettare numerosi laboratori didattici. Il primo di questi è realizzato nel 1977 per la Pinacoteca di Brera. Nel 1995 riceve il premio “Compasso d’oro” alla carriera. Muore a Milano nel 1998.
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