Traduzione di Roberta Corradini, casa editrice Bompiani
Joséphine lanciò un urlo e lasciò cadere il pelapatate. La lama era slittata, entrando in profondità nella pelle del polso. Sangue, sangue, sangue dappertutto. Guardò le vene blu, lo sfregio rosso, il bianco del lavello, lo scolapasta in plastica gialla dove aveva messo le patate già pelate, bianche e lucenti. Le gocce di sangue cadevano a una a una, chiazzando le piastrelle. Appoggiò le mani ai due lati del lavello e si mise a piangere.
Aveva bisogno di piangere. Non sapeva perché. Aveva un sacco di buone ragioni per farlo, e questa era da prendere al volo. Cercò con gli occhi uno strofinaccio, lo afferrò e lo applicò come un laccio emostatico sulla ferita. Sto per diventare una fontana, fontana di lacrime, fontana di sangue, fontana di sospiri. Sto per lasciarmi morire.
Era una soluzione. Lasciarsi morire, senza dire niente. Spegnersi come una luce che si smorza.
Lasciarsi morire ben dritta sul lavello. Non si muore dritte, rettificò immediatamente, si muore distese oppure inginocchiate, con la testa nel forno o nella vasca da bagno. Aveva letto su un giornale che il metodo di suicidio più comune tra le donne è la defenestrazione. L’impiccagione, per gli uomini. Saltare dalla finestra? Non avrebbe mai potuto farlo. Ma svuotarsi del sangue piangendo, non sapere più se il liquido che cola fuori di te è rosso o bianco. Addormentarsi a poco a poco. Allora, lasci andare lo straccio e tuffi i pugni nel lavello! Eppure, eppure… dovrai restare in piedi, e non si muore in piedi.
Tranne che in battaglia. In tempo di guerra…
Non era ancora tempo di guerra.
Tirò su col naso, aggiustò lo strofinaccio sulla ferita, frenò le lacrime, fissò il proprio riflesso nella finestra. Si era fermata i capelli con una matita. Su, si disse, pela le patate… al resto ci penserai dopo!
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