LA SCUOLA CATTOLICA, E. Albinati

L’unica grande novità della vita è la nascita. p. 1188

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L’ultimo libro di Edoardo Albinati, La scuola cattolica, vincitore del premio Strega 2016 è un tomo di 1293 pagine che, per un lettore italiano medio, è alquanto scoraggiante. Questo l’aggettivo che circola più spesso quando la mole dei libri supera le duecento pagine circa.

L’opera  di Albinati però non è propriamente un romanzo, o almeno non ne è solo uno, e non è solo un romanzo. E’ tanto altro. Il libro infatti affronta una miriade di temi ed argomenti quasi impossibile da riassumere, si potrebbe dire che sono, appunto, tanti romanzi intrecciati che s’incontrano e poi si separano per ricongiungersi ancora, una sorta di vari affluenti di un unico fiume e che tutti insieme sfociano nel mare della vita e dell’Italia.

E’ una disamina di eventi storici ma allo stesso tempo un’analisi sociologica e di costume dell’Italia dagli anni settanta fino ad oggi.

Lo spunto, o pretesto, è il delitto del Circeo del 1975 che scosse tutti nel profondo per la sua efferatezza e che fece enorme clamore per l’appartenenza ai ceti benestanti dei protagonisti – gli assassini – tutti ex studenti di un istituto scolastico romano ben conosciuto, il San Leone Magno, un istituto cattolico che si trova nel quartiere Trieste  e da cui proviene anche l’autore che è stato loro compagno di scuola.

L’opera procede come un lungo monologo-confessione del narratore che potrebbe anche non essere, o non del tutto, l’autore stesso il quale spesso, rivolgendosi direttamente al lettore lo chiama in causa e lo coinvolge in una partecipazione attiva come se si trattasse di un dialogo, o meglio ancora, di una corrispondenza. Forse un modo per tenere insieme tutta l’impalcatura del libro e offrire al lettore una bussola di orientamento, molti di questi interventi sono indicazioni per procedere nella lettura, inviti a saltare delle parti se più gli aggrada – al lettore – per evitare che si perda nei tanti rivoli narrativi che Albinati tiene insieme magistralmente.

E’ un’operazione complessa perché inevitabilmente nella lettura si frappone il ragionamento del singolo lettore con le proprie considerazioni, riflessioni del vissuto specifico di ciascun destinatario dell’opera, sia esso il lettore implicito figurato, immaginato dall’autore, sia esso il lettore reale; queste incursioni del tutto personali tendono a far divagare la mente di chi legge per la quantità di sollecitazioni, di inferenze che scaturiscono dalla lettura e allora l’intervento del narratore riporta il lettore dritto dritto al racconto che si sta dipanando sotto ai suoi occhi.

Inoltre, Albinati non si limita a ricomporre in un racconto lineare tutte quelle tessere di mosaico, sparse qua e là, di fatti di cronaca, situazioni e circostanze politiche, del clima generale che si respirava in Italia in quegli anni con le contrapposizioni nette tra fascisti e comunisti ancora divisive – come oggi, del resto – nonostante fossero trascorsi più di trent’anni dalla fine della seconda guerra mondiale con tutto il suo strascico velenoso di guerra civile; no, Albinati fa di più e, quindi, indaga le ragioni che stanno alla base di tante contraddizioni che configurano il nostro paese e gli italiani e allarga lo sguardo abbracciando uno ad uno vari aspetti che andranno a costituire gli anelli concentrici  che contengono il nucleo centrale e dunque analizza la tanto declamata famiglia italiana e quella borghese, in special modo – è da quello humus che provengono gli assassini –, le sue meschine e torbide ambizioni, i suoi sforzi immani per non vedere effettivamente cosa combino i figli e al tempo stesso proteggerli – ché col denaro si aggiusta tutto – ;  analizza il cattolicesimo precipuamente italiano con tutti i suoi compromessi e le sue ambiguità che per altro delinea e definisce la classe borghese italiana; si sofferma con occhio clinico sulla politica italiana – opportunista, cinica e scafata – che mira solo al consenso elettorale per mantenere stretto il potere consociativo dei due maggiori partiti che per 40 anni si sono spartiti l’Italia.

Ma ancor di più Albinati indaga interroga la cattiveria umana – forse le pagine più difficili, per intensità di emozioni che risvegliano – sezionando al microscopio, per così dire, i vari livelli di sadismo, di cui l’essere umano è capace, la gratuità del male che l’uomo è capace di compiere se solo gliene viene data l’occasione; il male e l’orrore che risiedono di fatto nell’ordinario, perciò ancor più spaventosi perché ciò significa che siamo tutti esposti e siamo tutti vulnerabili e potenziali carnefici ma soprattutto, e a maggior ragione le donne, vittime in un paese in cui il maschilismo è vessillo nazionale di virilità, in cui il patriarcato alberga nel cuore di tutti i maschi italiani, al momento solo accucciato e mascherato da un linguaggio appena appena velato di politcally correct, ma che smania, come una belva in gabbia, di poter uscir nuovamente allo scoperto manifestando tutta la sua furia e ferocia finora contenuta e repressa come Albinati ci mostra in questo passo:

“Persino quando si svolge in un luogo appartato, e non vi è nessuno oltre a chi perpetra e a chi subisce la violenza, questa ha sempre un lato dimostrativo. Viene illustrata come un teorema, anzi, si spiega da sé, si spiega nel portarla a termine. La sua pedagogia paradossale è rivolta sul momento alla vittima e a tutti quanti in seguito ne verranno a conoscenza: alle donne, inutile precisare perché, ma con un accento di scherno anche ai familiari maschi, padri, fratelli, mariti, venuti meno al loro compito di protezione e sorveglianza, e quindi agli altri uomini affinché imparino che c’è un modo spiccio per trattare le donne. Nulla più della violenza serve a esporre una tesi, a illustrare una teoria, ad affermare un diritto. Facendo scempio  di qualcuno, si fornisce un esempio (la prima parola ha la sua radice nella seconda).” p. 875

Non solo di questo si occupa l’autore, come si è detto, costruisce attorno a quello che rappresenta lo spunto iniziale, il nucleo centrale, tutto un mondo e un’atmosfera particolare che tocca tanti aspetti come si può evincere da quest’altro passo:

“149. Abilità, disinvoltura, ingegno – adoperati per la creazione e la diffusione di immondizia. Questo l’investimento di buona parte del talento. Essendo le qualità tecniche apprezzabili in quanto tali, indipendentemente dal campo in cui sono applicate e da fine che si propongono, si sente spesso dire che il o il talaltro sono ‘bravissimi’, sono ‘davvero in gamba’, sono ‘dei professionisti’, sono ‘dei mostri’, perché in effetti esercitano abilmente il loro mestiere, portano a termine con successo il loro progetto – cosa che peraltro facevano anche Jack lo Squartatore e Adolf Eichmann. Dominati come siamo, persino nel nostro immaginario, dalle ragioni del successo, dell’efficienza e della produttività applicati a ogni aspetto della vita, finiamo per ammirare qualsiasi azione ‘ben fatta’, riuscita’. Ma se a un certo punto perdi la pazienza e affermi che un certo tipo è ‘una vera merda’, sia per quello che è sia per quello che produce – programmi tv o edifici o abiti o canzoni o articoli di giornali o video pubblicitari – ti viene spesso controbattuto il disarmante argomento ‘Guarda che non è stupido per niente!’”. p. 1182

Oppure in questo, entrambi particolarmente attinenti a temi oggi molto dibattuti:

“155. Come nel primo secolo nell’antica Roma, così negli anni che mi sono stati assegnati da vivere, pullularono nella società tante illogiche fedi, popolando il mondo di demoni, illudendo enormi massi sull’avvento imminente di novità portentose, promettendo questo e minacciando quello ed esercitando incantesimi suggestivi, sicché molti ingenui vennero truffati dai falsi profeti e capi carismatici che le propagandavano. A differenza dell’antichità, dove gli spiriti coltivati seppero resistere al diffondersi di queste bugie buone per gli sciocchi e gli analfabeti, nell’epoca contemporanea parecchie persone intelligenti e colte, intellettuali, filosofi, scrittori, artisti, scienziati, invece di guardarsi bene dal prestare fede a queste fole, al contrario, davano loro ascolto, le abbracciavano come accecati e le predicavano con un entusiasmo ancora maggiore di quello manifestato dagli ignoranti, contribuendo a dare solidità alle idee più strampalate e illusorie con la forza del loro ingegno e gli argomenti della loro cultura. La cultura servì dunque non a esaminare in modo critico le menzogne ma a rafforzarle con ragionamenti viziati quanto convincenti: l’intelligenza usò le sue risorse per sollevare delle stupidaggini al rango di teorie, e la sua arroganza per difenderle da qualsiasi obiezione.” pp. 1182-83

Insomma è un libro di portata notevole anche per la qualità della scrittura e, come asserisce Francesco Piccolo nella sua recensione al libro apparsa sul “Corriere della Sera”, è un libro importante, un libro da leggere, e aggiungo io, nonostante e proprio per le sue quasi 1300 pagine che contengono un mondo intero variegato e complesso e in un tempo di semplificazione ossessiva, qual è il nostro, non è davvero poca cosa.

Images taken from Google Search

© L. R. Capuana

 

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