Questo agosto, a corto di idee, ho scandagliato la libreria di mio padre e ne sono uscita con tre delle migliori letture che abbia fatto ultimamente – forse finora, in tutto l’anno. Il che alza abbastanza l’asticella per i mesi a venire, vero?
Paolo Volponi, MemorialeAppena l’ho iniziato, ho scritto a Elia per dirgli che «Questo libro ti piacerebbe tantissimo». E infatti gli piace tantissimo, mi ha detto: è stato Memoriale a farlo innamorare della letteratura di fabbrica, quando era all’università.
E la parte sulla fabbrica, quella iniziale, è in effetti bellissima. Mi sono sempre chiesta cosa riuscisse ad affascinarlo così tanto – e con questo Volponi l’ho scoperto.
La parte centrale, quella della cura, è straniante e a tratti disturbante. Potrei aver saltato qualche pagina, e per fortuna secondo Pennac è un mio diritto inalienabile. Il finale inaspettato, bello, sa di rivalsa – di quella sospesa, però, non ancora compiuta pienamente.
L’altra sera, al telefono, mentre attorno a me si perdeva Italia–Spagna e mia madre parlava con mia zia, io stavo con la coperta tirata fin sulla testa a chiacchierare con Carlo. Quando mi ha chiesto quale fosse il mio libro preferito di Pavese, ho risposto Il mestiere di scrivere – che non so se vale, gli ho detto, visto che sono i suoi diari. Carlo ha detto di sì, che vale.
Lo è ancora, però il cuore di Feria d’agosto, cioè i racconti ambientati in città, sono una delle cose più belle che ho letto quest’anno, credo: linguaggio pulito e ritmo fortissimo, ma non prepotente. Il mio preferito tra tutti è forse Piscina feriale, che inizia così:
Goffredo Parise, SillabariÈ bella la nostra piscina color verderame sotto il sole e intorno cespugli che nascondono le case e i viali, e più lontano colline basse, così bella che qualcuno di noi si alza ogni tanto, dà un’occhiata comprensiva e fa un passo, poi respirando con un sospiro chiude gli occhi e torna a stendersi tacendo.
Cesare Pavese, Piscina feriale in Feria d’agosto
Un’altra scoperta italiana, che non mi aspettavo mi piacesse tanto quanto poi è effettivamente successo. Parise ha un italiano pulitissimo, ancor più di Pavese e Volponi, è diretto e allo stesso tempo la sua pratica preferita sembra la sospensione.
Credo, infatti, che se facesse durare un racconto anche solo un attimo o un giro di frasi in più di quanto non abbia effettivamente fatto, risulterebbe molto noioso o snob. Invece è un teso equilibrio spesso insoddisfatto, detto benissimo, a tratti distaccato e in altri carezzevole. Appena inizi a leggerli, senti sulla lingua il ritmo con cui dovresti scandirli. È un’arte, credo.
Il libro (nel mio caso, due volumi) è diviso in capitoli, uno per ogni lettera dell’alfabeto, e ognuno racchiude una serie di racconti ispirati da una parola che inizia con quella lettera. Se, per esempio, la parola è bellezza, il racconto può parlare o offrire un’immagine di bellezza, può contenere la parola bellezza, può essere tutto il contrario della bellezza.
La mia cosa preferita, però, sono stati gli incipit di ogni racconto: quasi favolistici, alcuni à la Gianni Rodari, spesso formulaici – per questo assolutamente accattivanti. Per esempio:
Una domenica di giugno un cane di nome Bobi che aveva e non aveva un padrone…
Ogni giorno un vecchio di campagna usciva di casa con la falce e un carrettino.
Un giorno un uomo che amava la sua vita e quella degli altri comunque fosse ma non si guardava mai allo specchio, uscendo dal bagno si vide un attimo…
Altre volte riesce a rendere un incipit un intero racconto:
Un giorno di luglio ormai lontano un uomo di venticinque anni ricevette una cartolina da una ragazza di diciotto.
Ho controllato: sono 114 caratteri. Potrebbe partecipare a un concorso di romanzi su Twitter. Già solo così, con questa frase autoconclusiva, Parise mette in moto le domande perfette della narrativa: chi è lui? E lei? Da dove scriveva? Era in vacanza? Come si sono conosciuti? Lontano quanto? Qual è la loro relazione? A volte il racconto poi lo spiega, altre proprio per niente. Ed è molto bello anche così – forse di più.
Lidia Yuknavitch, The Chronology of Water: A MemoirAiuto: è la prima parola che mi è uscita dalle dita al pensiero di dover raccontare questo libro. Però non è quella che la tua mente formula mentre lo leggi – posso garantirtelo.
A metà della seconda facciata ero in lacrime: la perfezione di una singola parola pensata scelta forse creata ha rotto qualcosa a livello del diaframma e sono scoppiata in singhiozzi.
La vita della Yuknavitch non è stata semplice. Per niente. Eppure, non fa sconti a nessuna esperienza e non si autopone sull’altare del vittimismo. È altamente esplicita e carnale: questo, in effetti, è forse il libro più erotico che abbia mai letto, perché è un erotismo completo, anche linguistico e poetico. E salva tutto, anche se stessa, con le parole. È esattamente ciò che amo della letteratura, quello che le chiedo: di salvare qualcosa di me, soprattutto se non sapevo ancora ce ne fosse il bisogno.
Out of the sad sack of sad shit that was my life, I made a wordhouse.
Lidia Yuknavitch, The Chronology of Water: A Memoir
Questo libro mi parla a tanti livelli. Non quello di persona abusata, non quello di persona dipendente da alcol e droghe, non quello di persona che è riuscita a fare un dottorato (ahia, questo brucia un pochino), non quello di madre, non quello di bisessuale – eppure, dopo ognuna di queste affermazioni, mi viene da aggiungere per ora. Perché questo libro racchiude tutto quello che potrebbe essere e allo stesso tempo è stato e le parole riescono in questo miracolo: tessere una vita. Tenerla assieme. E, allo stesso tempo, scorrere.
Share this:Your life doesn’t happen in any kind of order. Events don’t have cause and effect relationships the way you wish they did. It’s all a series of fragments and repetitions and pattern formations. Language and water have this in common.
Lidia Yuknavitch, The Chronology of Water: A Memoir