Etica del limite

Premetto che scrivere di disforia di genere mi interpella profondamente, che non sono né medico né psicologo, ma che vorrei provare a ragionare.

La disforia di genere è quel disturbo per il quale una persona, spesso anche un bambino molto piccolo, non si riconosce nel proprio genere biologico, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale che, spesso, non è ancora stato maturato, ove si tratti di individui molto giovani.

Ieri su RAI2 è stato mandato in onda un servizio che ha avuto, a mio modesto avviso, il merito di dare visibilità al tema in questione, e le interviste ai genitori che raccontano quanto vivano in famiglia, affiancando i loro bimbi in difficoltà, sono state delicate e chiarificatrici.

Posto che il fenomeno esiste, che viene diagnosticato e catalogato fra i disturbi mentali, mi è meno chiaro invece con quali esiti ed eventuali controindicazioni si intraprendano delle cure certamente molto invasive, fino ad arrivare alla sostituzione degli organi biologici.

Se è vero che cercare un rimedio ad un disturbo sia meritorio e doveroso, ciò non va fatto a qualunque costo né, si spera, per promuovere o legittimare altre ideologie quali quella del gender, peraltro impropriamente perché con questi casi non ha nulla a che fare.

Purtroppo invece ho la sensazione che, se sicuramente esistano medici e psicologi encomiabili che seguano le famiglie in questi lunghi e dolorosi percorsi, esistano pure correnti di pensiero che se ne servano per legittimare quanto non possa essere legittimato, ovvero che il sesso sia un’opzione, il risultato di una scelta. Questo è un discorso profondamente diverso.

Nascere maschi piuttosto che femmine è un dato biologico, di fatto, e se esistono casi di disturbo che prescindano da un orientamento sessuale questo merita attenzione, cura e amore ma non necessariamente credo questo deva legarsi con ideologie né con uno sminuire il dolore delle famiglie di questi ragazzi. La psicologa interpellata dalla trasmissione ha detto di lavorare con i genitori per fare loro accettare il disturbo dei figli, il che è meraviglioso, ma che in buona sostanza non ci si deve fare bloccare dal pregiudizio del vicino di casa.

Giusto? Sono scettica. Problematizzare una tale situazione è il minimo che si possa fare e comprendere un genitore che se ne vergogni, altrettanto. Certo che prevale il diritto del fanciullo alla serenità, ma tutti siamo esseri umani e partiamo da dei dati, naturali, che quando si alterano purtroppo creano grande sofferenza. Questo anche nel caso di una Sindrome di Down, ad esempio. Sofferenza punto e basta. Perché rifiutarla? Il negativo fa parte inevitabilmente del vivere autentico.

Inoltre, il rischio che tali situazioni, malattie, diventino viatico per una giustificazione di altro è reale e disgustoso. Credo ci sia un’etica del limite, che imponga di accettare le cose per quello che sono, le malattie per quello che sono, senza spingersi oltre per soddisfare altre istanze, frutto di interpretazione più che di necessità. Insomma, un disforico è un paziente, da non mettere sullo stesso piano di un transgender – che è un’altra realtà, meritoria di attenzione. Il politicamente corretto di certe voci che mirano a togliere significato ed eccezionalità ad eventi seri e peculiari non è positivo per chi si trova nel cuore di situazioni come queste. Credo.

Anche apparso su https://mauroleonardi.it/2017/11/06/le-lettere-di-gavina-masala-ne-con-speranza-ne-con-timore/

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